L'Onagro Maestro
Webfestschrift Scarcia 2004
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Daniela Bredi

Gianroberto Scarcia e Naëīr Akbarābādī


Soltanto chi non ci ha mai provato può credere che tradurre sia compito lieve. Quel "dire quasi la stessa cosa" in un'altra lingua, per riprendere il titolo di un recente lavoro di Umberto Eco1, pone soverchi problemi: primo fra tutti quello di sapere quale sia la cosa e poi come dirla. Spesso la traduzione, malgrado gli sforzi e la buona volontà di chi la compie, riesce come appesantita, troppo tecnica, oppure irriconoscibile, qualcosa d'altro, un tradimento. Non è mai questo il caso quando il traduttore è Gianroberto Scarcia, che della traduzione ha il genio. Con geniale facilità, infatti, egli individua qual è la cosa , ciò che deve trasparire e sfolgorare al di là e al di sopra di ogni lingua in cui viene tradotta ed egli stesso poeta, sa come dirla in versi che sono poesia vera. Chiunque abbia letto anche solo qualcuna delle molte opere poetiche da lui tradotte - dal persiano, dal turco, dal georgiano, dal curdo, dall'albanese, dal russo, dal pashto, dall'urdu - lo ha constatato con meraviglia quasi incredula e incondizionata ammirazione. È accaduto anche a chi scrive, che non ha titolo, a rigore, di porsi tra i suoi allievi, poiché non ha avuto il privilegio di averlo come maestro, ma che sovente ha avuto occasione di chiedergli aiuto e consiglio, sempre ottenendolo con prontezza e gentilezza, disponibilità e benevolenza insperate.

In particolare, chi scrive ha avuto il privilegio di vederlo all'opera sulle "Tredici poesie di Naëīr Akbarābādī", offerte all'amico Franco Coslovi2, vedendogli dare forma e vita a quelli che erano abbozzi, studi preparatori, materiale in fieri, centrando con incredibile sicurezza, non solo la cosa che il poeta indiano aveva inteso, ma anche, e con estrema sensibilità, come l'avrebbe voluta rendere colui che quel poeta si preparava a tradurre. Le parole si sono magicamente combinate, grazie a lui, a ricreare l'atmosfera poetica di Agra nel XVIII secolo, vista attraverso lo scanzonato disincanto di Naëīr e l'ammirato apprezzamento di Franco Coslovi. Ricordando quell'esperienza per me preziosa mi è sembrato non troppo fuori luogo aggregarmi ai suoi allievi per offrirgli , in tutta umiltà, un piccolo e reverente omaggio, che ha per argomento un componimento poetico di Naëīr Akbarābādī. Ovviamente, senza il suo tocco magico, i versi appariranno pesanti e goffi, ma la speranza è che lo divertiranno comunque.

Naëīr Akbarābādī (1740-1830), poeta a lungo misconosciuto dalla critica letteraria in patria3 proprio per quello che agli occidentali parve, e pare, un pregio - l'attenzione alla realtà quotidiana - non poteva tralasciare di comporre un sar-ā-pā, una descrizione "da capo a piedi" di una cortigiana4, una donna del bazar di Agra. La sua scelta anticonformista di vivere lontano dalle corti e dai circoli letterari per restare immerso nella realtà popolare e di farsene interprete, offre l'occasione, altrimenti insperata, di conoscere un poco più da vicino la mentalità prevalente in questo periodo5, che gli storici britannici e i revivalisti indiani, sia indù che musulmani, hanno etichettato come "decadente", attribuendo al declino politico cause morali.6 La costruzione coloniale dell'orientale dedito alla sensualità, all'indolenza e al divertimento legittimava, infatti, il dominio britannico, la cui moralità consisteva nella separazione tra responsabilità e gioco, lavoro e divertimento, politica e cultura, virile e femmineo7.

Una delle istituzioni della società indiana pre-moderna su cui si appuntarono gli strali degli inglesi è quella della ṭ­awā'if, la cortigiana, raffinato prodotto della cultura indo-musulmana, ancora oggi esistente, sia pure in forma degradata e corrotta.8 La società mughal garantiva alle donne pubbliche un ruolo culturale e, tutto sommato, esente da condanne morali, forse in parte memore dell'istituto indù della devdāsī - la cui funzione è pure connessa strettamente alla musica, al canto e alla danza - e felicemente dimentico delle prescrizioni dei dotti musulmani, ai quali evidentemente si preferivano i sufi, capaci di mediare tra le ideologie religiose9.

Naëīr Akbarābādī, da vero sufi, non si cura delle forme e delle dispute religiose, ma si fa interprete del comune sentire, indipendentemente da distinzioni di credo e di razza. Per lui Dio si manifesta nell'amore, in qualsiasi forma, anche carnale. Raramente egli canta l'amor platonico e la bellezza eterea, perché per lui la bellezza è fisica, viva e reale ed egli la ricerca, non la venera soltanto struggendosi in una separazione simulata.10 Perciò la "fata" che ritrae è una giovane donna del bazar, bella, piena di grazia e di gioia di vivere, consapevole di sé e del potere che può esercitare sugli uomini, maliziosa e pronta al gioco, alla battuta, sapientemente abbigliata per attirare gli sguardi, senza volgarità alcuna, che sa concedersi e negarsi, sicura di saper suscitare non soltanto desiderio, ma amore. Amore, giovanile trasporto, è infatti quello che dichiara allegramente Naëīr di sentire per lei, e di cui non si vergogna affatto, ansioso di correre da lei, stringerla fra le braccia, addormentarsi appagato e felice. Ecco i suoi versi:

Ritratto di fata11

Sguardo assassino, lusinga crudele, questo il suo modo obliquo di guardare
Ciglia acuminate, occhi penetranti, questo del ciglio l'aggrottare

Occhiata che uccide, passione che devasta, son occhi che fanno innamorare
Batter di palpebre, rapide pupille, nero antimonio dagli occhi fan colare

Malizioso sguardo, grazia ingannatrice, che il sopracciglio fanno alzare

Inquietudine tremula qual luce che brilla, spietata crudeltà
Duro come pietra il cuore, parole dolci qual voluttà

Gesti aggraziati per stuzzicare, trucco sugli occhi per conquistare
Ora foschi ora chiari, gli occhi, ebbri per inebriare
Mente astuta, sguardo bugiardo, nel petto il subbuglio per gettare

Sul capo, ben sollevato il bordo dello scialle di broccato
Fronte alta, riccioli folti, prezioso pettine, capelli raccolti

Come salvare il cuore da rapinoso amore se tra le oscure chiome,
Notturna perfezione, vedi brillare il lampo di bianca divisione

Fra i riccioli belli splende la riga a spartire i capelli: tanta è la cura dell'acconciatura

Alla narice il brillante alla moda colma il viso di splendore
Nel mento fossetta profonda cento tempeste fa temere

Fitta la gonna di perle e luccicanti stelle d'oro
Orecchino a forma di fiore, sospeso il monile dell'orecchio al foro

Pende il gioiello a goccia, luccicano i campanellini: così l'oscillare degli orecchini

Riluce più della perla il bel volto vieppiù accaldato
Splendon più delle perle le gocce sul viso sudato

Quando ride sparge fiori, quando parla sono perle a cader fuori
Tra le sottili labbra delicate i denti balenano qual perle splendenti

Disegni di henna i piedini a tingere, tinta la bocca di missī12 con la polvere

Irresistibile tra i seni la fessura, fa impazzire della camiciola l'apertura
Ti perde la grazia della sua figura, t'incanta il bel corpo - ne è sicura

Che passione, quelle coppette, quelle rotondità perfette
Mele acerbe, fuori stagione, seni piccoli e sodi, che passione

Nel corsetto bagliori, lampi di pizzi e d'ori, vesti attillate a suscitar furori

Entrambi i polsi cingono cerchi d'oro e d'argento
Allegro tintinna e abbaglia delle braccia l'ornamento

A questa vista palpita d'amante il cuore in petto
Sottilissime dita, delicate giunture, qual diletto

Color di henna la punta delle dita tinge, d'arabeschi le copre ed anelli finge
Ah, della bella l'aspetto va oltre ogni mio detto
Bellezza e gioventù, ma che si vuol di più

Dondolano le sue braccia, amico, io sospiro - che vuoi che faccia
S'incurvano quelle membra, con il mio cuore giocano - mi sembra

Bracciali al polso, arma di seduzione, braccia incurvate - che passione

Al veder le sue curve mi confondo; si scuote il cuore : è la fine del mondo
Cavigliere, ornamenti, campanelli, ad ogni passo i piedini fan più belli

Ad ogni movimento son tintinnii e fulgori a cento e a cento
Cammina con lei la gioventù, sui tacchi alti, e stai a guardare, tu
Ticchettano i tacchi, fluttuano le gonne, ogni suo passo mi rende insonne

Incede accompagnata dal clamore, come esce, la bella, fa rumore
Fianchi ondeggianti, la sua camminata fa uscire di senno gli amanti

Si muove, la sfrontata, e ogni parola è sprecata
Alza la mano, batte a terra il piede, agita il corpo - beato chi la vede

Ogni gesto un oltraggio, una provocazione, quando batte le mani induce in tentazione

Ti dà la morte e la vita ti rende, quell'infedele, e c'è chi m'intende
S'adombra e tiene il broncio, cento smorfie ti fa, sostiene il tuo sguardo e zitta non sta

Senza posa s'aggira l'insolente e i modi da civetta mai non smette
Strizza l'occhio in modo provocante, mostra e nasconde il viso ridente

Che riso contagioso, di sconvenienze un turbine scherzoso

Dà di gomito, t'illude, ti canzona e ti deride
Gaie mossette, scherzi salaci, piene d'arguzia le parole audaci

Al vederla solleva il cuore, la tentatrice, con quel modo di fare
E gira cento miglia al largo, è il consiglio che ti porgo

Doppi sensi, sguardi ammiccanti, che giochetti provocanti

Nuovi mondi ad ogni gesto di quell'assassina, nuovi bagliori ad ogni mossettina
Occhiate oblique, palpebre battenti, aria ingenua, parole suadenti

Mille e mille arti il cuore per conquistare, cento e cento trucchi l'anima per catturare
Bella sempre, la grazia in ogni atteggiamento, muta espressione ad ogni momento

Fior di gioventù, ecco ella appare, dondolando le braccia, si vela per civettare

Al mondo delle belle ella appartiene, dove si trovano conturbanti sirene
Se dal volto il velo ella discosta, del sole la luce ecco s'offusca

Se di tanta beltà tu senti fame, perché dar pena al cuore con le brame
A quel volto di luna lasciati andare, a quella fata fatti abbandonare

Accese ha le guance, lucenti i capelli, che fioritura di vezzi belli

Lineamenti da quadro, seni da fata
Bocca insolente e fronte un po' corrugata

Alterigia in quantità, un po' d'amore e sensibilità
Ingannevole ammaliatrice dal naso all'insù, finta ingenua che sa di più

Con che detti accattivanti ti asservisce, con uno sguardo a morte ti ferisce

Qualche moina e un po' d'arroganza, qualche astuzia e un po' di decenza
La sua stagione di bellezza in natura ancor non è del tutto matura

Come un fiume in piena clamorosa travolge la bellezza in ascesa
Gonfia il petto l'empito della passione, fa vacillare chi ne ha nozione

Beltà, altero temperamento, e che eleganza, quale portamento

Al vederne la nuca, povero me, di quella fata son già alla mercé
Il nudo collo, bianco com'è, come di perla appare a me

Inquieta il cuore e te lo rapisce, si giungon le mani e l'anima stupisce
Come lo stelo d'un calice spezzato, il lungo bel collo assai rimirato

Si gira a destra, si volta a sinistra, ti fa impazzire mentre si mostra

Quando il fiume della bellezza è tanto a nuotar tra le onde riesci a stento
S'ella mi amasse sarei felice, ma, se m'offende, di pazientare il cuore dice

Cuore rapito, innamorato, altro da dire non ho trovato:
Corri, Naëīr , dalla tua fata, stringila al petto addormentata

Baci frementi, abbracci palpitanti: finalmente s'incontrano gli amanti!

Il poeta sa perfettamente che non sempre e non per tutte le donne del bazar la realtà è questa, poiché, come scrive in un altro suo componimento, la povertà spesso le costringe a danzare nei festini davanti a un pubblico che riserva loro solo scherno, ad accettare in pagamento somme infime da clienti sgarbati, a sfinirsi in prestazioni sessuali ruminando tristemente in cuore:

Un damrī se ne va pel betel, con un damrī ci compro il missī
Resta un c'hadam, mi ci farò riempire un orcio d'acqua...
E poi, s'arrovella, e poi... che merda mangerò? 13

Eppure, anche in questi versi, non c'è alcuna riprovazione, alcun moralismo nei confronti delle donne pubbliche, ma piuttosto l'amara constatazione di un dato di fatto, la povertà, il bisogno, che induce a svendersi queste donne, alle quali va tutta la sua simpatia. Non è certo, quindi, perché vittima delle arti magiche di una di queste "fate" che egli , com'era e ancora talvolta è costume tra i poeti, se ne innamora, ma per una sorta di entusiastico apprezzamento delle sue grazie fisiche e delle sue doti di arguzia, spirito e intelligenza, che le permettono di recitare con arte consumata la commedia della seduzione. Eppure, nel pensiero popolare, soprattutto femminile, le cortigiane erano considerate esperte di magia, se non streghe per lo meno fate maligne, capaci di irretire e mettere alla propria mercé qualunque uomo, con filtri, fatture, sortilegi. In un ambiente in cui era naturale ricorrere ad amuleti ed incantesimi,14 le donne ne facevano comunemente uso per tenere legato a sé il marito, danneggiare le rivali, altre mogli o concubine, ed attribuivano alle cortigiane la conoscenza di arti magiche particolarmente efficaci, anche perché così, come dice saggiamente Rusw..., che è una miniera di informazioni a questo riguardo, evitavano di dare la colpa al marito, facendola ricadere tutta sulle donne pubbliche15.

Per Naëīr, invece, proprio di una fata si tratta: bella e ammaliatrice, incantevolmente seduttiva nella sua freschezza e gioventù, irresistibilmente attraente nella finzione dell'alterigia, perché "quando il fiume della bellezza è tanto, a nuotar tra le onde riesci a stento". Ed egli non chiede di meglio che essere travolto, di lasciarsi andare a "quel volto di luna" nel sospirato incontro che conclude la vivace, deliziosa descrizione della sua bella, forse proprio quella Motī, Perla, di cui si dice fosse l'amante.

1 Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa, Milano 2003.

2 "Tredici poesie di Naëīr Akbarābādī", in Ex libris Franco Coslovi, Eurasiatica 40, Venezia, pp. 103-118.

3 Il poeta non viene neppure menzionato da Muhammad Husain Azad né da Altaf Husain Hali, gli autori delle due opere con cui ha inizio la critica letteraria urdu moderna, mentre l'inglese S.W Fallon, nella prefazione al suo New Hindustani-English Dictionary, London 1879, lo definisce "the only Hindustani poet according to the European standards of true poetry". In seguito, Naëir, fu rivalutato e secondo alcuni (cfr. Muhammad Sadiq, A History of Urdu literature, London, OUP, 1964, p. 111) sopravvalutato.

4 Fino ad ora mai tradotto in lingua occidentale, per quanto risulta a chi scrive.

5 Ali Jawaid Zaidi, A History of Urdu Literature, New Delhi 1993, p. 144

6 W. Irvine, Later Mughals, ed. by J. Sarkar, New Delhi, 1971 reprint, cap. XI.

7 Vinay Lal, "Masculinity and Femininity in The Chess Players: Sexual Moves, Colonial Maneuvres, and an Indian Game", Manushi: A Journal of Women and Society, nos. 92-93 (Jan.-April 1996), pp. 41-50.

8 Basti pensare alle cortigiane che si trovano nel romanzo In custodia di Anita Desai (Einaudi 2000) e in quello di Vikram Seth, A suitable boy, Viking 1993.

9 Vasant Rajas, Devadasi: shoda ani bodha, Pune 1997, p. 17, riferisce che presso alcuni dargāh c'erano fanciulle con funzioni simili a quelle delle devdāsī, chiamate achūtī.

10 Zaidi, op. cit., pp. 144-145.

11 Naëīr Akbarābādī, 'Parī kā sar-ā-pā', Kulliyāt-i Naëīr , Lucknow 1951, pp. 257-261.

12 Polvere nera, usata in cosmesi per tingere le labbra, l'equivalente dell'odierno rossetto.

13 A. Bausani, Storia delle letterature del Pakistan, Milano 1958, p. 154.

14 In Ja'far Sharif, Islam in India or the Qanun-i Islam, edited by W. Crooke, translated by G. A. Herklots, London 1972 (1st published Oxford 1921) ci sono vari capitoli dedicati alla magia e alla stregoneria (xxvi, xxvii, xxviii). Tra le varie pratiche in uso tra le donne si segnalano il Bagno della Fata e il Vassoio della Fata, che prevedono anche la partecipazione di un mullā oltre a quella dell'indispensabile parī-wālī, donna-fata. (pp. 268-273).

15 Mirzā Muḥammad Hādī Ruswā, Umrāo Jān Ādā, Dihli, 1997 (ristampa dell'edizione 1938), p. 224.