L'Onagro Maestro
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Leonardo Capezzone

La fine del cosmo aristotelico e un'incoerenza di al-Naẓẓām


... una situazione, non v'è dubbio, paradossale: per ben sette secoli nei centri urbani dell'Islam si venne elaborando in lingua araba una ricerca scientifica e matematica fra le più avanzate della storia. Può mai essere verosimile che i filosofi [...] siano restati isolati nella loro attività filosofica, indifferenti ai mutamenti che si producevano sotto i loro occhi, uno dopo l'altro? Di fronte a una messe senza precedenti di successi e di innovazioni disciplinari [...] è davvero legittimo immaginare che i filosofi se ne siano rimasti insensibili fino al punto di autoconfinarsi nel campo relativamente ristretto della tradizione aristotelica e del neoplatonismo? L'apparente povertà della filosofia dell'Islam classico è senza alcun dubbio un fatto che riguarda i suoi storici piuttosto che la storia (Rashed 2002, pp. 483-484).

1. Il paradosso storico-culturale cui allude Roshdi Rashed può essere allargato fino a includere chiunque, fra l'VIII e il IX secolo, fra Basra, Kufa e Baghdad, portava col proprio contributo intellettuale una traccia, o un riverbero, di quella complessità culturale che contraddistingue il quadro della prima età abbaside. La questione sollevata dallo storico della scienza, infatti, si presta - credo - volentieri ad espansioni e sconfinamenti a partire da quello che sembra essere veramente l'oggetto del mutamento epocale: i linguaggi della rappresentazione del mondo, scientifica, filosofica o poetica. Linguaggi che danno corpo alle esperienze diversificate dei rapporti fra parole (antiche) e cose (nuove), fra le reliquie e i discontinui reliquiari (libri, e più spesso idee in forma di biblioteca...) della classicità da un lato, e dall'altro l'elaborazione di un archivio che prima non c'era per collocare i reperti che da quella classicità giungono, e sistemarli entro la propria storia, e la propria storiografia.

La nuova enciclopedia del sapere, le relazioni fra i saperi e le metafore costitutive delle nuove conoscenze, come pure la plurivocità dei margini di condivisione fra i saperi, tutto ciò ingloba la dimensione ellenistica, avvertita - secondo le rappresentazioni con cui la letteratura di adab ci ha restituito i diversi modi arabo-islamici di fruire del discorso sulla/della classicità - o come modello irripetibile, stagliato in un illo tempore, o awā'il, in cui i dotti sapevano veramente tutto, o come una proteiforme mega-maqāla (nel senso arcaico del termine, di discorso sistematico sostenuto da un maestro di verità e dalla sua scuola), degna del massimo rispetto, ma suscettibile di critica, di revisione, e a volte di superamento, secondo quel modo di guardare al passato per proiettarsi inconsapevolmente verso l'avvenire.

In entrambi i casi, devozione filosofica e approccio scientifico disinvolto, sono atteggiamenti difficilmente etichettabili come tardo-antichi, o medievali. Forse potrebbero essere chiamati post-classici, per dare conto non solo del recupero di un patrimonio quale quello ellenistico, ma anche di una sua utilizzazione in chiave consapevolmente ideologica e culturalizzata. Siamo di fronte alla costruzione di un discorso storiografico sull'avvenuta appropriazione del sapere greco, che quanto meno si manifesta come storia di una tradizione ininterrotta (e su alcune modalità con cui essa diventa tema letterario "autoctono", si veda Jolivet 1991); sappiamo qualcosa del versante "mitico" di questo discorso, che a tratti assume i caratteri di vetusta leggenda metropolitana - i secoli bui di Bisanzio iconizzati in forma di libri seppelliti, chiusi a doppia mandata in templi ove giace e si consuma la dismemoria del sapere ordita dal cristianesimo. Le procedure di una siffatta dismemoria, provocata dalla proibizione del sapere e dal naufragio dei testi (cfr. la storia dei saperi proibiti in Ibn al-Nadīm, nelle prime pagine del VII capitolo del Fihrist), sono sempre evocate secondo i modelli giuridici musulmani, oggetto di controversia dottrinale, con i quali si limita la liceità della distruzione dei libri: - Io preferirei che venissero seppelliti, - rispondeva il giurista al-Awzā'ī, a chi gli chiedeva se fosse meglio vendere o bruciare libri presi come bottino di guerra in terra bizantina. Al-Shāfi'ī, invece, riteneva che, in quelle condizioni, si imponesse l'obbligo di conoscerne il contenuto, fondando così l'istanza giuridica della traduzione (Ṭabarī, pp. 177-78) - e lasciando forse aperto uno spiraglio per capire l'intreccio tematico fra saperi proibiti e saperi riscoperti, tradotti, legittimati.

Tradurre, dunque, diventa un dispositivo inaugurale e legittimante del mito della riscoperta del passato, ma, a volte, anche di uno sguardo polemico sul presente (Chi ti assicura che ciò che assumi a fondamento del tuo sapere sia stato tradotto bene?, dice in sintesi, fra certe altre obiezioni, il grammatico Abū Sa'īd al-Sīrāfī al logico filelleno Abū Bishr Mattā, nel corso della celebre disputa bagdadina: anche quella era una maniera, piuttosto lucida, post-classica, di guardare a una classicità sentita al contempo come di gran moda. Del resto, lo stesso al-Tawḥīdī, che ha conservato memoria di quella disputa [Imtā', I, pp. 107 ss.], si ritrova spesso a conversare col suo visir mecenate di "sapere greco", cioè di stili di pensiero. Forse non è un caso che per aprire la collezione di discussioni dell'Imtā' wa'l-mu'ānasa egli scelga il tema del confronto tra i moderni e gli antichi, annosa querelle che qui sembra offrire una cornice, un ideale assetto unitario, un filo al discorso che si dipana, notte dopo notte, fra due tra gli spiriti più tormentati dell'umanesimo arabo). Un mito, quello della Grecia, nutrito abbondantemente di polemica politica nei confronti dell'altro grande impero, che pure soltanto al califfo, com'è noto, riservava il pari titolo di basileus negli atti ufficiali della cancelleria, e ai suoi ambasciatori il posto d'onore nel cerimoniale di corte (i Bizantini? Degli artigiani, scriveva Jāḥiẓ, fornendo esempi non troppo imparziali dell'incomparabilità abissale fra i Greci antichi, veri artisti, e i nuovi).

Un mito, dunque, quello del sapere ritrovato, che trascende, e a noi confonde, il reale profilo ricettivo, da parte arabo-islamica, delle rotture e decadenze altrui e delle proprie ricuciture; queste ultime spesso sembrano farsi metafora sapiente, veramente artificiosa, e spesse volte ironica, di una consapevolezza della portata ideologica che il mito dispiegava ogni volta che affiorava e si rielaborava. Si pensi alla compiaciuta dimensione teatrale con cui, una sera a Baghdad, in casa del barmecide Yaḥyā ibn Khālid gli ospiti si accingono a recitare il Simposio, secondo Mas'ūdī, (VI, pp. 368-86). Il passo, proprio perché plausibilissima fiction, può prestarsi a diverse interpretazioni intorno ai criptici dati contenuti in questo testo, e che sembrano sottintendere una sorta di coscienza storiografica dei passaggi di testi e d'idee che esso contiene (Meisami 1989; Capezzone 1999): fra tante ambiguità, enigmatica appare l'assenza, in un convivio che vede accanto a rappresentanti delle diverse correnti di pensiero teologico musulmano l'esilarca ebreo e il sommo sacerdote mazdeo, di un cristiano. Il compito di illustrare il nesso, o la compatibilità, fra saperi arabi e saperi stranieri, è affidato al persiano, che introduce nel dibattito la descrizione medica dello stato d'amore, cui Mas'ūdī può agevolmente agganciarsi per illustrare a sua volta le idee "moderne", cioè quelle dei filosofi (incluso il mito dell'androgino dimidiato necessariamente attratto dell'altra metà).

A noi risulta abbastanza semplice cogliere queste sfumature ideologiche, perché, a nostra volta, abbiamo edificato un mito della Grecia ideologicamente orientato. Ne risulta, però, anche una maggiore, ingenua inclinazione a cogliere, di quel passaggio dal greco all'arabo, i plausi e le adesioni (letti trionfalmente come il segno di un'illuministica apertura - al-Kindī, al-Fārābī, Averroè, le biblioteche che accolgono il "sapere degli Antichi"), oppure le condanne e le abiure (viste riduttivamente come manifeste puntate dell'oscurantismo -al-Ghazālī dopo la crisi mistica, le madrase che escludono le "scienze straniere"). Simili letture, che di tanto in tanto ancora oggi riaffiorano nonostante dichiarazioni di mutati approcci, presuppongono una compattezza, a duplice, monolitica direzione, nell'accoglienza o nel rifiuto, riflesso di una biunivoca disposizione dell'episteme (lo spirito dei tempi, si diceva prima di Foucault), che non si riassume solamente nella rigida, frequente dicotomia "filosofia vs. religione"1, più nascostamente, il mondo che certa storia dell'Islam classico ci viene presentato accentua i grandi schieramenti, e non vede le commistioni - forse celate persino alla consapevolezza di chi in quel mondo si muoveva: o tutti platonici o tutti aristotelici (che non è come dire o mistici o materialistici, ma qualche cosa di più interessante). Quanto abbia significato il neoplatonismo per la critica "scientifica" alla fisica aristotelica, da Filopono in poi sostando a lungo in terra arabo-islamica, è cosa nota; meno evidente, perché probabilmente subentra qui un elemento di soggettività, potrebbe essere, da parte di un autore, la percezione di sé (scienziato o filosofo, o entrambe le cose) all'interno di questa o quella tradizione e del relativo corpo del sapere, e l'effettivo risultato cui l'opera del tale autore perviene, in cui l'indagine moderna rinviene chiarissimi segni di superamento: purtroppo ignoriamo che cosa contenesse la biblioteca filosofica di Ibn al-Haytham - il quale fonda la scienza (sperimentale) dell'ottica componendo le scienze fisiche e quelle matematiche (Omar 1977) - ma allorché Shlomo Pinès presenta il progetto dello scienziato come un compromesso volto alla risoluzione dell'"enigma della posizione della matematica all'interno dello schema aristotelico delle scienze" (Pinès 1974, p. 80), sorge il dubbio che vi sia una differenza non documentata dalle periodizzazioni adottate dagli storici fra l'essere aristotelici e credersi tale. Anche di questa differenza è forse fatto quello spazio indeterminato che contiene il passaggio dalla Tarda Antichità alla pre-modernità senza un medioevo dell'Islam classico. Ancora nel XIII secolo, Naxīr al-Dīn al-Ṭūsī, neoplatonico per fede, edita per l'ennesima volta l'Almagesto, ma su base trigonometrica rinnova la tradizione di studi dei "dubbi su Tolomeo" (gli Shukūk 'alā Baṭ-lamiyūs inaugurati da Ibn al-Haytham), verificando per singoli casi l'errore del maestro alessandrino.

Le idee sulla Grecia - intesa come luogo geometrico di diverse esperienze storiche, oggi avvertite come irriducibili - nutrite da intellettuali di differente formazione nella dār al-islām, nel momento della sua classicità sono forse diverse, e diversamente distribuite rispetto al nostro periodizzare.

2. Qui vorremmo illustrare alcuni aspetti decisamente marginali che dipendono, però, piuttosto strettamente dall'impatto del sapere classico nell'orizzonte epistemico arabo classico, dai nuovi assetti del sapere e dai nuovi confini euristici legati al mutamento e all'espansione dei linguaggi, e da quei problemi che, in elegante spirito polemico, la citazione da Roshdi Rashed sinteticamente metteva a fuoco; aspetti che hanno a che vedere soprattutto con certi plausibili rischi che sempre corrono le contaminazioni intellettuali nel momento in cui vengono recepite, e ricevono una collocazione nel contesto: il malinteso, l'incomprensione, il fraintendimento, la confusione, la contraddizione - momenti temporanei o duraturi del pensiero che spesso si accompagnano ad altri elementi peculiari dell'esercizio dell'interpretazione: la confutazione, l'accusa di incoerenza. Il filo conduttore sarà quello della poesia, luogo in cui linguaggi ed esperienze convergono.

Non v'è dubbio che Abū Nuwās e la sua scuola abbiano immesso nel codice poetico della nuova città abbaside una notevole quantità di topoi che cambiano radicalmente il modo di concepire la rappresentabilità dell'amore. Ma è decisamente impressionante il parallelismo cronologico che emerge dal confronto fra le nuove immagini con cui la corrente dei muḥdaṬūn, i Moderni, costruisce lo spazio della critica anti-classica della propria poetica, e le immagini che ci giungono dai rapporti fra kalām e filosofia naturale; la nuova poesia dice cose antiche usando concetti nuovi. È interessante osservare come una tematica quale appunto l'amore, per la quale è abitudine mutuare dal sapere medico la sintomatologia anche in sede poetica, non di rado adotti nozioni e concetti peculiari delle teorie atomiste mutazilite. Dalla malattia d'amore si slitta, in altre parole, verso una fisica del corpo innamorato. Sembra possibile disegnare una tavola di corrispondenze puntuali fra i nuovi topoi letterari - corpo/corporeità (jism/jirm), essenza-sostanza-atomo (jawhar)2, movimento/quiete (ḥaraka/sukūn), inclinazione/attrazione (mayl /jadhb), spazio/locazione (makān/kawn), - e le principali tematiche intorno a cui, fra VIII e IX secolo, il kalām e la falsafa aristotelica (cristiani, ebrei, musulmani, dualisti e manichei) si confrontavano, in un dibattito sulla costituzione dell'universo sulle cui fasi sono stati dedicati lavori importanti (Van Ess 1978-79; Frank 1978; Dhanani 1994). In particolare, un recente articolo di Marwan Rashed ricostruisce i rapporti fra il kalām e le scienze del tempo avvalendosi di una lettura delle fonti dossografiche che mette in luce il ricorso innovativo, da parte dei mutakallimūn, di argomenti matematici a sostegno delle loro teorie fisiche. Così l'autore conclude la sua trattazione (Rashed [M] 2002, pp. 69 e 72):

A livello epistemologico, la fisica del kalām ha riattivato e sviluppato in direzioni nuove alcune questioni sui fondamenti della scienza che erano rimaste addormentate per secoli. È in particolare il caso della riflessione sul continuo e dell'appropriazione dell'atomismo matematico che pone il quadro in cui il problema sarà formulato fino a Leibniz nel 1676. A livello propriamente scientifico, alcune osservazioni fisiche dei mutakallimūn [...] sono altrettanti esempi dell'attitudine dei teologi a leggere anche "il grande libro della Natura". [...] A livello ideologico, la fisica del kalām segna l'inizio della messa in questione del sistema del mondo aristotelico. Il Cosmo di Aristotele non è più che una concezione del mondo fra le altre, soggette a critica. Gli argomenti dei mutakallimūn, trasmessici attraverso le confutazioni che ne hanno dato i peripatetici (Avicenna, Averroè e Maimonide principalmente), innervano in modo diffuso l'antiaristotelismo medievale e rinascimentale.

Ciò che in questa sede appare interessante è la puntualità con cui si rintraccia, in alcune fonti, la consapevolezza dell'avvenuto salto di qualità con cui i teorici del kalām tentavano di descrivere ogni rapporto esatto delle sostanze, degli accidenti e degli eventi del mondo fisico con l'onnipotenza divina, avvalendosi di prove matematiche a sostegno di dottrine che, almeno stando all'ispirazione teologica di partenza, avevano a che fare senza dubbio più con l'ontologia che con la geometria. E' il caso di al-Juwaynī, che coglie richiami espliciti alla matematica nello sviluppo della disputa fra Abū 'l-Hudhayl e al-Naẓẓām sul continuo fisico (ibid., p. 53); nel complesso, un dato affiora in maniera generalizzata: la convergenza antiaristotelica fra mutakallimūn e matematici, fra dottrine e rappresentazioni geometriche dello spazio e della sua discussa finitezza erano già notate all'epoca (X-XI secolo). Di fatto, a una lettura che non abbia alle spalle una vera e propria formazione scientifica, i mutakallimūn sembrano "solo" dire cose nuove ricorrendo a immagini antiche.

Eppure, il superamento di determinati paradigmi cognitivi che si andavano inserendo nel dibattito classico sulla costituzione del creato - non più un commento, seppur critico, alla fisica aristotelica, alla maniera di un Filopono, che pure influì non poco in ambiente arabo (Davidson 1969), ma una revisione dall'interno di nuovi quadri concettuali che ne mostravano i limiti - non veniva recepito all'unisono come un passaggio dall'interpretazione al cambiamento di prospettiva. Semmai, risalta più spesso lo stupore, o lo sdegno, degli aristotelici di fronte al consumarsi di un fraintendimento madornale, riflesso di una cronica, inavvertita confusione dei piani del discorso. Nella storia dei rapporti fra kalām e filosofia naturale, e dei tormentati dibattiti fra mutakallimūn e filosofi di stretta ortodossia aristotelica, un caso di conclamata denuncia dell'irriducibilità fra le due tradizioni di pensiero è costituito dalla replica dell'aristotelico Yaḥyā ibn 'Adī a una perduta confutazione del De caelo sostenuta da Abū Hāshim al-Jubbā'ī.

Della confutazione, che probabilmente si basava su una più antica negazione, da parte dei mutakallimūn, dei luoghi naturali e della quinta sostanza aristotelica, Marwan Rashed ricorda la sopravvivenza in due frammenti in Ibn Mattawayh e in un terzo in al-Bīrūnī (rimandando a Gimaret 1976, p. 312). Nei primi due si parla del movimento naturale e del rapporto fra dinamica e cinematica; il terzo riguarda la forma dell'acqua, che non è sferica (quindi, esplicitamente contro il De caelo, II, 4, 287a 30-287b 4). I passaggi superstiti della critica di al-Jubbā'ī al De caelo, opportunamente sviscerati da Marwan Rashed nelle loro valenze scientifiche (Rashed [M] 2002, pp. 61-62), lasciano capire che la questione complessiva, alla luce delle nuove prospettive di ricerca del tempo, necessitava di una decisiva riconfigurazione dei dati, di cui si doveva prendere atto. Tuttavia l'aristotelico Yaḥyā ibn 'Adī sentenzia: "Io non comprendo il linguaggio dei mutakallimūn e loro non comprendono il mio, esattamente come nella sua critica al-Jubbā'ī non ha compreso la minima cosa del linguaggio di Aristotele" (Ibn al-Qifṭ-ī, p. 40).

Il disprezzo di Yaḥyā ibn 'Adī per il kalām e i suoi seguaci è ben attestato; a questi ultimi, egli rimprovera di non essere altro che dei sofisti, buoni solo a fabbricarsi premesse da cui trarre conclusioni artificiose: "Questa gente inventa da sé i propri assiomi (uṭṣūl), e poi considera le proprie argomentazioni provate in conformità a quegli stessi assiomi. Si può dimostrare quanto essi ricorrano a sterili sofismi, talvolta intenzionalmente, talvolta senza che se ne rendano conto..." (Tawḥīdī, Muqābasāt, pp. 223-224). Il disprezzo, e forse lo snobismo, sono certamente parte dell'eredità lasciata al filosofo cristiano dal suo sommo maestro, al-Fārābī; il quale, è noto, al kalām era decisamente ostile, poiché in esso vedeva una tecnica del pensiero (ṭṣinā'a) in grado di forzare le verità filosofiche ai fini politici e apologetici (nuṭṣra) di questa o quella religione (milla) (al-Fārābī, p. 100). Medesimo fine utilitaristico era rintracciato da al-Fārābī nella filosofia cristiana, ed esplicitamente denunciato nella figura di Giovanni Filopono, di cui scriveva: "Si potrebbe pensare che egli volesse, con la sua confutazione di Aristotele [sull'eternità del mondo, per cui cfr. ancora Davidson 1969], assumere la difesa (nuṭṣra) di opere riguardanti il mondo scritte da membri della sua comunità religiosa, oppure che volesse evitare di cadere in contraddizione con dottrine sostenute dalla sua comunità religiosa e protette dai suoi capi, in modo da non incorrere nel destino che fu di Socrate" (Mahdi 1967, pp. 257).

Yaḥyā ibn 'Adī condivide il biasimo per i mutakallimūn, e ha di sé una percezione assolutamente aderente all'immagine che di sé coltivano i cultori della filosofia. Tuttavia, nonostante la sua familiarità con il corpus aristotelico, è noto quanto egli abbia contribuito, con argomenti filosofici, alla discussione cristologica - dunque apologetica - negli ambienti interconfessionali di Baghdad (la qual cosa non riscosse l'approvazione del maestro). Ansia di verità e superbia intellettuale sono gli ingredienti indispensabili per sostenere una disputa: egli scriverà un breve trattato per il suo pupillo Ibn al-Samḥ - "Sulla dimostrazione che la prova della creazione del mondo dei filosofi è migliore di quella dei mutakallimūn" - in cui l'ideale filosofico avulso da ogni compromesso apologetico viene forse un po' meno. Possiamo immaginare come avrebbe reagito se solo avesse letto ciò che Ibn al-Qifṭ-ī (p. 40) scriveva di lui: "il più importante mutakallim del circolo dei filosofi (ra'īs mutakallimū 'l-firqa al-falsafiyya)", laddove in questo caso mutakallim potrebbe anche tradursi "portavoce". Ma non finisce qui. Riprendendo un motivo che fu di al-Fārābī - quello dell'influenza che i filosofi cristiani avrebbero avuto sullo sviluppo del kalām (Berman 1974; Stroumsa 1991) -, Maimonide scrive nel capitolo LXXI della Guida dei perplessi:

"Quando la Chiesa cristiana [...] accolse nel suo seno queste nazioni [i Greci e i Siriaci, prima descritti come coloro "che cercavano di contraddire le opinioni dei filosofi"] [...] e vennero sovrani che proteggevano la religione, i saggi di quei secoli, fra cui erano Greci e Siriaci, videro che c'erano evidenti contraddizioni fra le loro asserzioni e le opinioni filosofiche. Nacque così fra loro la scienza del kalām, e iniziarono a stabilire delle proposizioni da cui la loro fede traeva gran profitto, nonché a confutare quelle opinioni manifestamente contrarie alle basi della loro religione. Allorché apparvero i musulmani, e ricevettero gli scritti dei filosofi, questi ricevettero anche quelle confutazioni rivolte contro gli scritti dei filosofi. Essi trovarono dunque le opere di Giovanni il Grammatico, di Ibn 'Adī e d'altri ancora, che trattavano appunto di tali materie; e se ne impadronirono, convinti d'aver fatto un'opera importante..." (Maimonide, p. 175).

Che si trattasse di un anacronistico abbaglio, è da escludere con una certa fondatezza. In una sua lettera al traduttore Samuel Ibn Tibbon, che gli aveva chiesto un parere su libri e filosofi, Maimonide dedica un paragrafo a tre filosofi cristiani: Ibn al-¦ayyib, Yaḥyā ibn 'Adī e Yaḥyā ibn al-Biṭ-rīq. I loro commentari (su Aristotele), così scrive, sono inutili, e leggerli è veramente una perdita di tempo (Marx 1934-1935, p. 380)3.

3. Nel caso della poetica dei Moderni, la corrispondenza con l'universo descrittivo dei mutakallimūn non pare esaurirsi al semplice (ma altrettanto problematico) livello del prestito, o dell'analogia lessicale; alla condivisione di uno stesso lessico - parte integrante della ricerca formale da parte del poeta - sembra affiancarsi la medesima congruenza concettuale, sorta di traduzione, o di esemplificazione (o banalizzazione?) della teoria in figura del discorso poetico. Particolare evidenza di un simile processo di transfert semiotico dall'ambito del discorso filosofico-scientifico a quello poetico risulta dai rapporti fra al-Naẓẓām e Abū Nuwās4.

Ibn al-Nadīm (Fihrist, p. 205) ci ricorda che al-Naẓẓām, oltre ad essere un brillante dialettico, si cimentava nella poesia; il bibliografo fornisce un dato interessante: nei suoi versi, egli utilizzava espressioni riprese dal pensiero filosofico del kalām (dhahaba fī shi'ri-hi madhhab al-kalām al-falsafī). E soprattutto aggiunge: ciò nonostante (ma'a dhālika), [in poesia] faceva un buon uso della retorica e delle figure del discorso. Perché "ciò nonostante"?

Dei versi di al-Naẓẓām oggi non restano che rari frammenti, due dei quali sono conservati nel Fihrist di Ibn al-Nadīm; troppo poco, perché possano corroborare il giudizio della nostra fonte. Tuttavia, se pure il bibliografo ravvisava nell'opera poetica del mutakallim una diretta influenza della corrente di pensiero a cui apparteneva, e avverte la necessità di prevenire l'eventuale riserva mentale scrivendo che, in fondo, lo stile poetico non era troppo malvagio, sembra possibile dedurre che l'innovazione non suscitasse l'approvazione della critica; è come se il giudizio personale di Ibn al-Nadīm tentasse di smussare gli spigoli che impedivano, almeno secondo un sentire estetico maggioritario, l'accostamento dei due campi di elaborazione del linguaggio. Un che di incompatibile e di irriducibile sembra separare le tematiche del mutakallim, e le immagini evocate ad illustrarle, e quelle del poeta. Il dubbio che la poetica di al-Naẓẓām non fosse compresa in sede estetica dai critici letterari medievali è lecito, ma la questione, e il dubbio, si riverbera su Abū Nuwās, che pure ebbe proprio al-Naẓẓām come maestro di dialettica (Dīwān, III, p. 4), e che, di quella fisica dell'amore ('alā madhhab al-kalām al-falsafī, si potrebbe dire) di cui sopra troppo sbrigativamente si diceva, è stato spudorato artefice e caposcuola, ma nel quale di fatto la critica letteraria medievale araba ha riconosciuto un modello. Possiamo dunque chiederci: quando Abū Nuwās ricorreva a immagini della fisica del kalām, veniva compreso? In altre parole: come veniva recepito, prima ancora che interpretato, quel processo mediante il quale il poeta esemplificava con immagini antiche, cioè classiche, del discorso poetico (il vino, l'amore) concetti derivati dal moderno dibattito fra mutakallimūn e filosofi della natura?

All'interrogativo sembra dare risposta un esempio di mancata ricezione di senso, che in maniera sfumata rivela una certa inadeguatezza dell'interpretazione all'oggetto interpretato. Una famosa khamriyya di Abū Nuwās unanimemente riconosciuta dalla critica del tempo come rivolta contro al-Naẓẓām è centrata su tre cavalli di battaglia della teoria antiatomista dei corpi del grande mutakallim: il mizāj ("complessione", ma in questi contesti più precisamente "fusione degli elementi costitutivi delle sostanze, o delle sostanze/attributi"), la mudākhala ("interpenetrazione delle sostanze/attributi") e il tawallud ("generazione", ma, nel linguaggio del kalām, causa secondaria, indipendente da una Causa prima)5. I versi sembrerebbero banalizzare - ma forse perché non ne capiamo a sufficienza la cifra esatta - la consistenza dei dibattiti intorno a questi concetti: si parla di vino fuso a luce (mizāj), del reciproco interagire delle due sostanze (mudākhala), e della conseguente nascita di nuove luci (tawallud) (Dīwān, III, pp. 2-4).

Non sappiamo fino a che punto Abū Nuwās fosse introdotto nei circoli filosofico-teologici della sua città; i versi in questione, comunque, hanno tutta l'aria di essere una critica ad al-Naẓẓām, come anche i recensori del Dīwān affermano a chiare lettere. Ma una critica a che cosa?, e secondo quale stile? La disputa filosofico-teologica, o l'invettiva poetica? Il filologo Abū Hātim al-Sijistānī, citato da Ḥamza al-Iṭṣfahānī nelle sue glosse, classifica senza alcun dubbio i versi come appartenenti al genere del hijā', cioè la poesia satirica (ibid., p. 4); Ḥamza al-Iṭṣfahānī, invece, nel dubbio, la colloca nel genere delle poesie bacchiche. Entrambi i critici letterari vedono nei versi un rimprovero del poeta rivolto ad una certa qual abitudine del mutakallim a razzolare bene, come si suol dire, e a predicare male. In particolare, un aneddoto riportato da Abū Hātim al-Sijistānī (ibid., p. 4) mostra un Abū Nuwās giustamente seccato di doversi sentire ammonito per la propria condotta licenziosa proprio da quel noto intenditore di vino e amante dei ragazzi; l'incontro avrebbe fornito l'occasione di questi versi. Si direbbe che tanto all'uno quanto all'altro commentatore dell'opera poetica di Abū Nuwās sia sfuggito l'altro aspetto, quello confutativo secondo la regola dei grandi dibattiti intellettuali; sappiamo infatti da al-Ash'arī (Maqālāt, pp. 403-404) che al-Naẓẓām negava alla mescolanza (mizāj) dei corpi la proprietà di produrre (tawallada) nuovi corpi, argomentando così contro la pretesa origine del mondo a partire dall'unione di luce e tenebra sostenuta dai dualisti bardesaniti (Jāḥiẓ, Ḥayawān, V, p. 46). Vi è, nella risposta del poeta, una criptica adesione alla tesi manichea? Probabilmente no: più semplicemente, Abū Nuwās confutava al-Naẓẓām (esattamente come questi era solito fare, cioè adottando paradossalmente le tesi dell'avversario) sul piano dell'esperienza poetica, e del suo peculiare linguaggio6.

Il carattere confutativo dei versi, peraltro, non deve essere andato del tutto perduto: l'ultimo verso della polemica khamriyya ha conosciuto una particolare fortuna, diventando la citazione proverbiale di chiunque, nel corso di una disputa, volesse mostrare all'interlocutore la contraddizione in cui incorreva, e la sostanziale incoerenza del suo pensiero: a chi va sostenendo sapere di filosofo / di' che di ciò che sa parte ricorda e molto dimentica. Se ne ritrova, in verità, citato solo il secondo emistichio, dando per scontata, da parte di chi ascolta, la conoscenza del primo. Fra i molti esempi in cui il verso ricorre ad hoc, qui risulta particolarmente pertinente notare che se ne servì Abū Sa'īd al-Sīrāfī, nel corso della disputa, poco fa ricordata, in cui egli refutava, contro Abū Bishr Mattā, la presunta universalità della logica greca (Tawḥīdī, I, p. 110)7.

Ma un altro interrogativo si giustappone al primo: l'esempio poetico apporta nuovi elementi di discussione della dottrina fisica, o il ricorso a nuovi concetti produce un mutamento di senso negli antichi motivi poetici?

4. Un improbabile aneddoto vorrebbe che un famoso filosofo, attratto dall'aria virtuosa di un ignoto giovanotto intento a passeggiare per le strade della città, lo apostrofasse facendo appello alla bellezza del suo sembiante, sicuro specchio di chissà qual altra vetustà dell'anima, invitandolo a conversare di cose sublimi. Non capita tutti i giorni - più o meno così il filosofo illustra la ragione del suo ardire - di riconoscere nelle altrui fattezze tanta affinità di aneliti e di intenti. "Non oserei", precisa, citando un verso di Abū Dulaf, "se non fosse che il tuo posto nel mio cuore è pari a quello dell'anima in un corpo generoso".

Il filosofo in questione è al-Naẓẓām, ma somiglia sorprendentemente a Socrate; nel passo consegnatoci da Abū 'l-Faraj al-Iṭṣfahānī (VIII, 248-49) il tentativo di creare un'atmosfera classica è palese: classica, evidentemente, non solo per noi, che riconosciamo immediatamente, negli elementi costitutivi della narrazione messi in atto dall'autore musulmano del X secolo, qualche frammento del nostro immaginario spicciolo: una certa aria ateniese, l'efebo che sembra uscito dalla palestra, il discorso altisonante del saggio marpione che allude alla bellezza di chi serba in cuore filosofiche virtù. È classica anche per chi, fruitore medievale, riconosce il passaggio canonico del personaggio dal rigore della biografia all'estetica della caratterizzazione letteraria. Non manca, soprattutto, la propensione maieutica del filosofo, che verrà fin troppo soddisfatta dalle parole del giovane, al quale è ignoto il volto, ma non le dottrine che hanno reso famoso sino alla proverbialità il suo illustre interlocutore. Così l'aneddoto continua: "Quel che tu dici - replica il giovane - è ciò che va insegnando il nostro maestro (ustādhu-nā), Ibrāhīm al-Naẓẓām: le nature attraggono ciò che somiglia loro per affinità, e inclinano verso ciò che ad esse è vicino per consonanza. Cosicché tutto il mio essere è incline al tuo. Ma se pure ciò che lo avvolge fosse un mero accidente, io non lo considererei amore; anzi, la sua è sostanza corporea, che persiste al persistere dell'anima, e al suo annientarsi s'annienta. Ti dirò ciò che ha detto il poeta: accertati prima ch'io t'ami per davvero / e poi fa' quel che vuoi di questo [tuo] sapere"8.

Ritrovandosi citato, confutato e rifiutato nel medesimo tempo, al-Naẓẓām non fa una piega; constatando l'inesorabile referenzialità del saccente discepolo, e la sistematica coerenza del suo diniego, il filosofo si defila non prima di aver detto l'ultima parola: "Ti sto dunque invitando a ragionare di ciò che già hai imparato a menadito. Se solo avessi saputo che il tuo posto è simile a quello di Ma'mar9 nel campo della dialettica, mai t'avrei fermato."

Il passo di Iṭṣfahānī è, al contempo, un fulmineo saggio di storia della filosofia, e di storia della scienza; fulmineo, nella sua brevità, tanto quanto lo è l'incrociarsi dei due corpi del sapere che documenta. Quanto tutto ciò sia intenzionale, da parte dell'autore, è chiaramente un mistero; probabilmente, si tratta di un riflesso di quel processo di decostruzione e di assorbimento del sapere greco (o grecizzante) nelle forme familiari di un tema letterario ("... une façon bien déterminée de représenter les philosophes grecs; [...] une manière de drammaturgie culturelle òu ces philosophes sont autant de personnages à qui sont assignés des rôles divers mais qui tous concourent à ce même effet tacit de persuasion": Jolivet 1991, p. 31). La percezione "nostra" di quei frammenti di grecità è certo data dall'aderenza a un canone icono-testuale della rappresentazione islamica classica del convivio di filosofi; ma la solennità del simposio, quale ci giunge ad esempio dai dotti che ragionano sull'amore nella fiction grecizzante di Mas'ūdī (cfr. sopra), e ancor più, perché non mediata dalle risorse retoriche della letteratura, dagli asciutti resoconti di dispute e confutazioni che sarebbero andate altrimenti perdute, diligentemente redatti dai dossografi, in questa finzione manieristica si stempera nella parodia: la fonte, o meglio il modello, dell'imitazione socratica, sembrerebbe essere Aristofane più che Platone.

Il canone classicheggiante, tuttavia, induce in inganno: i segmenti discorsivi, infatti, prendono corpo da immagini scontatissime, che sembrano "antiche", e come tali gabellate dal filosofo - l'amore come metafora della cognizione, il tema ambiguo dei simili che si attrarrebbero, e il soggiacente mito dell'anima sferica, spettro del testo platonico mai giunto in arabo nella sua integrità, eppure così a fondo recepito e riformulato, e confutato, nelle teorie arabo-islamiche dell'amore (Gutas 1988; Raven 1989; Meisami 1989). E tuttavia, il giovane riconosce al volo l'incoerenza subdola dell'argomentazione pretestuosa di al-Naẓẓām: le parole chiave della replica sono mayl e jadhb, inclinazione e attrazione di alcuni corpi verso altri corpi - qui, come si evince, non ancora debitamente distinte - che costituivano il fulcro di una teoria di al-Naẓẓām tesa a superare la nozione aristotelica di luogo naturale (Van Ess 1992, III, pp. 316 ss.). A dire il vero, il passo è mosso più da sollecitazioni parodistiche che da una cura filologica; le parole attribuite dal giovane al maestro di dialettica echeggiano certe discussioni posteriori (ad esempio, il dibattito sulla persistenza e l'annichilimento degli atomi e dei corpi, riportato da Abū Rashīd al-Nīsābūrī, Masā'il, pp. 58 ss.). Risalta inoltre un certo senno del poi - o meglio, una diacronia dello sviluppo delle tematiche che qui viene spacciata per sincronia, quando la statica e la dinamica del X secolo contribuiscono a espandere le risorse euristiche di queste suggestive nozioni; sarà con Ibn al-Haytham e soprattutto con Avicenna che si passerà dalla nozione di attrazione alla formulazione di una serie di teorie sul movimento nel vuoto e sulla caduta dei gravi, preludendo alla teoria rinascimentale dell'impetus (Hasnaoui 1984).

Qui, dunque, di tutt'altro che di amore si parla, e di tutt'altra attrazione dei corpi è (o comincia ad essere) questione: le immagini sono scontate se poste ad illustrare idee antiche, ma assumono una diversa risonanza, e una differente significazione se descrivono nuovi oggetti del sapere. Proprio come nei versi di Abū Nuwās, che rimproverava al filosofo di ricordare solo una parte del suo sapere, al-Naẓẓām qui si vede confutato coi suoi stessi argomenti- inclusa la dottrina secondo cui tutto è corpo, e niente è accidente - proprio perché il giovane allude, fingendosi ingenuo ma non idiota, ad un mutato rapporto fra parola e cosa, tra figura del repertorio poetico antico e sostanza del discorso filosofico moderno, che grazie al lessico dei mutakallimūn - di cui, a Baghdad, l'incauto talent scout è uno dei capiscuola più brillanti - sembra essersi verificato. Nel momento stesso in cui dimostra di aver colto, nella momentanea incoerenza dell'antiaristotelico al-Naẓẓām, il rischio di una residua persistenza di antichi significati nelle metafore invocate ad illustrare concetti scaturiti da nuovo sapere, il giovane informa (più nella pratica che nella teoria) della fine della Tarda Antichità uno di coloro che, di quella fine, furono artefici.

5. Nel IX secolo, un'intensa stagione di osservazioni astronomiche, promosse da al-Ma'mūn, provava a verificare i dati stabiliti dall'Almagesto; le discrepanze che cominciavano ad emergere fra la pratica sperimentale e il testo tolemaico portavano al riesame di quei parametri operativi che sembravano contraddire l'autorità antica, e a nuove, continue traduzioni (Morelon e Saliba 1997). Verso la fine di quella stagione, il matematico e astronomo Ṭābit ibn Qurra (m. 901) partecipa alla discussione antiaristotelica mettendo a punto una sua cosmologia; ne rimane un frammento, conservato in un passo dei Mabāḥiṭ al-mashriqiyya di Faḥr al-Dīn al-Rāzī (II, pp. 63-64), dove risalta la centralità del concetto di "attrazione". Qui, a differenza che nella dinamica di al-Naẓẓām, l'uso del concetto dimostra una distinzione già acquisita rispetto al più generico concetto di "inclinazione", e sembra inaugurare una certa emancipazione nei confronti della tradizione dell'aristotelismo neoplatonico da parte di quelle singole branche del sapere - fisica, statica, dinamica - che convergevano nella configurazione di una nuova cosmologia post-aristotelica. Il contesto in cui Ṭābit ibn Qurra, che è essenzialmente astronomo, si ritrova a criticare Aristotele con argomenti desunti dalla statica e dalla dinamica, resta ignoto. Le immagini, per noi che non siamo storici della scienza, tuttavia, suonano ancora simili a quelle, antiche, dei filosofi naturali e dei poeti; eppure si intuisce immediatamente che, in questa trattazione del IX secolo, si poneva il problema della caduta dei gravi e dell'attrazione terrestre: "Se si immaginasse la Terra intera tirata su al livello della sfera del Sole, e si lasciasse una pietra nel luogo occupato oggi dalla Terra, questa pietra se ne andrebbe verso la Terra, perché sarebbe attratta dalla più grossa simile a se stessa."

Ṭābit ibn Qurra non era evidentemente estraneo alla storia della confutazione del De caelo, mossa come abbiamo già visto da Abū Hāshim al-Jubbā'ī, e centrata - a giudicare dai frammenti superstiti - sulla critica alla nozione peripatetica di luogo naturale; il passo qui citato dell'astronomo sembra infatti ribaltare l'opinione dello Stagirita all'interno di una medesima esperienza di pensiero, ma inserendo una nozione - l'attrazione, intesa come azione meccanica a distanza, e produttrice di moto - assente nella fisica greca. Il probabile riferimento aristotelico che Ṭābit ibn Qurra aveva in mente potrebbe essere quel passo del De caelo in cui Aristotele sostiene preliminarmente che ogni corpo naturale è trasportato "verso la sua forma propria", e prosegue affermando che "è così che andrebbe inteso il detto degli Antichi, che il simile va verso il simile. Perché non è che questo si verifichi in tutti i casi; se, infatti, si ponesse la Terra dove ora è la Luna, ogni sua parte non si porterebbe già verso di essa, ma nella direzione in cui anche ora si porta" (IV, 3, 310b 1-5).

Ṭābit ibn Qurra conosceva il greco ; era nato a Ḥarrān, luogo caro al festeggiato, dove ancora in pieno X secolo sembrava concentrarsi il più alto numero di reliquie della tarda antichità. Là, stando alla lettura che Michel Tardieu propone della testimonianza controversa di Mas'ūdī, sopravviveva l'ultima Accademia platonica (Tardieu 1986, p. 18), cui la formazione intellettuale del giovane Ṭābit, agente di cambio la cui intelligenza incantò il maggiore dei fratelli Mūsā, tanto da indurre quest'ultimo a portarlo con sé a Baghdad, doveva forse qualcosa. Anni dopo, ormai divenuto scienziato affermato nella capitale dell'impero, consegnando ai suoi lettori un'immagine descrittiva dell'attrazione terrestre ritenuta persuasiva (e ci affascina l'ignoto ordine dell'inferenza, che sospinge l'astronomo verso una simile metafora allusiva), così proseguiva quella sorta di nota in margine al De caelo:

Se tu immagini i luoghi vuoti, come si è detto, e immagini che una parte della Terra sia collocata in un qualche punto nel vuoto e il resto altrove, la più grossa parte attirerà necessariamente la più piccola. Se s'immaginasse la Terra tagliata in pezzi e questi li si disseminasse in tutto l'Universo, essi non si dirigerebbero gli uni verso gli altri e non si arresterebbero che là dove tutti incontrano. Non lascerebbero quindi un luogo per un altro luogo, perché non c'è differenza tra il luogo che la Terra occuperebbe e quello che essa ha oggi. E se delle parti fossero separate dalla Terra in questo punto, essi [vi] tenderebbero (bi-jadhb] esattamente come accade oggi. Allo stesso modo, se si dividesse la sfera della Terra in due metà e le si separasse, ognuna cercherebbe egualmente l'altra, fino a che esse non s'incontrerebbero nel centro...

Ostentando sicurezza di non essere frainteso, Ṭābit ibn Qurra così lasciava un segno dell'equivoca fine della Tarda Antichità.

Riferimenti Bibliografici

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1 Dovrebbe ormai essere chiaro anche agli storici della filosofia islamica che la filosofia è per costituzione la spina del fianco di ogni società (per la Grecia classica, cfr. Luciano Canfora, Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci, Palermo, Sellerio, 2000). L'attualità del problema, là dove i monoteismi si fanno più rigidi, ci veniva a suo tempo ricordata - Maimonide da un lato, Averroè dall'altro, e Spinoza in prospettiva, da Leo Strauss, Scrittura e persecuzione, tr. it.Venezia, Marsilio, 1991.

2 Sull'uso di jawhar inteso sia come "sostanza" sia come "atomo"nel lessico mutazilita, si veda Dhanani 1994, pp. 55 ss.

3 Che cosa fosse veramente Yaḥyā ibn 'Adī ce lo dice Emilio Platti: "Yaḥyā ibn 'Adī n'était ni théologien ni philosophe, mais plutôt un commentateur et surtout un éditeur des Anciens"; Yaḥyā ibn 'Adī, théologien chrétien et philosophe arabe, sa théologie de l'Incarnation, Leuven, Orientalia Lovaniensia Analecta 14, 1983, p. 19.

4 Un primo approccio volto a far luce sulla presenza di metafore filosofico-scientifiche derivate dal pensiero di al-Naẓẓām nel dīwān di Abū Nuwās, e più in generale sulle relazioni fra letteratura e immagini cognitive formulate dalla scienza, è stato tentato da chi scrive: "Abū Nuwās e al-Naẓẓām fra teologie a confronto, metafore scientifiche e poetiche della mescolanza", in AA. VV., Poetiche medievali. La tradizione occidentale e orientale a confronto, in corso di stampa, Roma, Carocci.

5 Una trattazione "non scientifica" del tawallud è presente anche in altri luoghi del dīwān di Abū Nuwās; ad esempio, dove compare il topos della bellezza che genera nuova bellezza (Dīwān, IV, pp. 41, 45).

6 Abū Nuwās forse non amava i filosofi: il termine falsafa è sempre inserito in contesti satirici. Si vedano i versi (Dīwān, IV, pp. 53-54) in cui in un gioco di immagini fra il nero dell'inchiostro della lettera dell'amata e il volo dei corvi, la lettura diventa un atto di divinazione, e chiudono così: "Che ne dici del mio divinare? Non sono forse tra i filosofi il più grande?"

7 La proverbialità del verso è provata da un passo di Ṭa'ālibī (Histoire des Rois des Perses, p. 631), dove un vecchio saggio preislamico avrebbe recitato il verso a un saccente Burzoyeh, giunto in India alla ricerca di erbe miracolose capaci di resuscitare i morti.

8 al-Ṭ-abā'i' tujādhibu mā shākala-hā bi'l-mujānasa wa-tamīlu ilā mā qāraba-hā bi'l-muwāfaqa. Wa-kiyānī mā'ilun ilā kiyānika bi-kulliyyatī. Wa-law kāna alladhī inṭ-awā 'alay-hi 'araÿan lam a'tadd bi-hi wuddan, wa-lakinna-hu jawhar jismī, fa-baqā'u-hu bi-baqā' al-nafs, wa-'adamu-hu bi-'adami-hi. Wa-aqūlu ka-mā qāla al-shā'ir: fa-tayaqqanī an qad kaliftu bi-kum / thumma af'alī mā shi'ti 'an 'ilmi

9 Ma'mar ibn al-Muthannā al-Tayyimī, l'eminente grammatico della scuola di Basra chiamato a corte da Hārūn al-Rashīd nel 188 h.