L'Onagro Maestro
Webfestschrift Scarcia 2004
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Alberto VENTURA

Gianroberto Scarcia islamista


La produzione di Gianroberto Scarcia è, a ben vedere, tutta islamistica. Non è quindi facile isolare all'interno di essa temi e riflessioni che mettano in evidenza il suo pensiero in fatto di Islam come distinto e separato da quanto si riferisce invece alla cultura iranica, o all'arte, o alla critica letteraria. C'è, tuttavia, qualcosa che emerge sulle altre, almeno a mio parere, ed è su questi punti che intendo soffermarmi in questa breve sintesi riguardo agli apporti scarciani più significativi agli studi islamici. La poliedricità dei suoi interessi – cosa per la quale Scarcia è il più degno erede di Alessandro Bausani – non ci impedisce di individuare alcuni "nodi" che ci sembrano di particolare rilevanza nell'analisi del fenomeno islamico visto complessivamente; e indicare questi "nodi" avrà un particolare significato proprio perché non sempre le intuizioni di Scarcia sono state recepite nell'ambiente accademico (soprattutto nostrano), che non sembra aver tenuto conto dei suoi contributi islamistici, quasi fossero delle divagazioni di qualcuno che non faceva l'islamista a tempo pieno. Ne è testimonianza esemplare il fatto che la definizione del mondo musulmano come "arabo-islamico", etichetta insensata che già svariati decenni or sono Scarcia aveva lucidamente messo sotto accusa, continua imperterrita a comparire nel linguaggio dei nostri studi.

Partirei proprio da questo punto, e cioè dall'analisi arabismo/islamismo che Scarcia fece in un suo saggio del 19771. Quello che più colpisce, in questo scritto, è la capacità di vedere il problema in una prospettiva storica profonda, macroscopica, che riesce a percepire l'Islam come la "riunificazione ellenistica di gran parte del Mediterraneo". Una riunificazione indolore, per di più, giacché essa lascia inalterate strutture mentali e materiali delle due componenti rivali (ma complementari) del mondo antico e tardantico, la romano-bizantina e la persiana. Così, con l'Islam, la Persia torna nel Mediterraneo, si occidentalizza, storicizza i propri miti, e d'altra parte l'Islam subisce l'attrattiva persiana, la sente più forte e più vicina a sé di quella di Roma, si desemitizza e si orientalizza. Da un punto di vista storico-religioso, la conclusione da trarne è che l'abitudine a ragionare di Islam esclusivamente in chiave di religione semitico-monoteistico-abramica non coglie tutte le facce della realtà: l'apporto orientale è decisivo e fondante, è una delle radici e non soltanto una foglia che s'è venuta ad aggiungere ai rami di un albero già cresciuto. La vitalità dell'Islam si può interpretare, secondo Scarcia, proprio in questa chiave: da un lato esso ha dato prosperità alla tradizione semitica giudaico-cristiana, dall'altro ha reso ancor più vitale il proprio ellenismo con l'innesto organico della cultura iranica.

Questo spiega il ruolo della Persia e soprattutto del persiano nella civiltà musulmana. Unico vero rivale dell'arabo, il persiano e la sua "accademia" sono stati per secoli gli strumenti di un modo diverso di pensare l'Islam, non necessariamente opposto ma il più delle volte complementare a quello più ufficiale dell'arabismo. Questo ruolo si è concretato in due fenomeni essenziali, conclude Scarcia. Da una parte, la "retorica" del persiano si è dimostrata più duttile di quella araba ed ha con maggiore facilità e flessibilità superato i classicismi e le rigidezze di certi moduli espressivi. In fondo, mi permetterei di aggiungere, è il persiano che rimane qui più fedele all'idea originaria che l'Islam sembra aver concepito della letteratura: il classicismo semitico è un artificioso ritorno al passato col quale la poesia araba ha in parte tradito quello spirito di audacia scandalosa, di rendī, di malamatismo, che per un certo tempo aveva condiviso col persiano, ma che in seguito solo il persiano ha saputo mantenere in vita e portare alle sue forme più perfette. Il secondo risultato, conseguenza del primo, è che la lingua persiana non si è messa con l'arabo in un rapporto di profano/sacro, ma ha espresso una sua peculiare sacertà, "meno chiesastica di quella araba", come dice Scarcia, "ma non di rado più interessante e più viva". È l'aspetto "eretico" del pensare in persiano, che eretico non è e che anzi il più delle volte si rivela molto più genuinamente islamico di tanta trattatistica araba islamically correct.

Non è quindi casuale, secondo me, che un altro dei contributi più essenziali forniti da Scarcia all'islamistica sia quello riguardante la nozione stessa di eresia2. Si tratta di considerazioni espresse più di quarant'anni fa, quando l'analisi dell'"eresia islamica" era monopolio di filologi e studiosi delle istituzioni, che com'è ovvio annaspano di fronte alle dottrine e le valutano con una sensibilità storico-religiosa a dir poco zoppicante. Gli studi di teologia musulmana, ad esempio, non avevano allora conosciuto un van Ess, e forse solo Massignon a quell'epoca era riuscito a sbarazzarsi del paradigma ortodossia=Arabi/eresia=Persiani. Per dirla alla Scarcia, l'Iran era ancora il comodo diabolus ex machina cui imputare ogni forma di devianza da una non meglio identificata ortodossia semitica. È vero che Bausani aveva da poco pubblicato Persia religiosa, e che dunque dei passi importanti nell'impostazione del problema erano stati compiuti, ma le osservazioni di Scarcia, proprio per la loro sinteticità, aiutarono moltissimo a demolire certi luoghi comuni che si trascinavano da decenni (il fatto che dalle nostre parti questa demolizione sia passata inosservata ai più non cambia la sostanza delle cose).

I tentativi di inquadrare l'eresia musulmana in termini di sciismo contro sunnismo, religiosità popolare contro religione colta, sopravvivenze mitologiche contro storicizzazione libresca, Islam di second'ordine contro vero Islam, sono tutti immancabilmente fuorvianti. Anzi oggi viene il sospetto che gli studiosi occidentali, seminando per un secolo queste idee, abbiano fornito l'ossatura ideologica a certi rigorismi dell'Islam contemporaneo, che quelle categorie ha fatto proprie per meglio diffondere la propria visione religiosa povera e iconoclasta. Scarcia rovescia tutti i termini delle impostazioni consuete e ci dice che non è stato il legittimismo politico della shi'a a produrre l'estremismo religioso, ma che è piuttosto il ghuluww (in quanto tendenza primigenia) a concretarsi storicamente e coerentemente nello sciismo; che il rapporto mito/storia è lungi dal poter essere facilmente equiparato al rapporto fra le due confessioni principali dell'Islam, "poiché la linea divisoria fra mito e storia taglia tutta la fenomenologia religiosa musulmana, e non costituisce già solo lo spartiacque fra sunnismo e sciismo"; che non c'è nessuna "aria fresca di sapore popolare" in certi elementi apparentemente mitologizzanti che di tanto in tanto affiorerebbero e prevarrebbero sulla più incolore e asettica visione degli ortodossi, ma che è piuttosto l'Islam a riprendere miti formalmente vecchi e a dar loro nuova vita dopo averli adattati a sé, modificati e arricchiti (in quest'ultimo punto è evidente l'influsso bausaniano). Infine, e qui troviamo un più diretto aggancio con quanto detto in precedenza, Scarcia fa notare che il "mito" islamico è necessariamente tinto di malamatismo, che fa sì che un ortodossissimo 'Attār possa affermare eresie più blasfeme alle orecchie di un benpensante di quelle di un Muqanna'. Ancora una volta, però, non si tratta in realtà né di eresia, né di bestemmia, ma di quello che Scarcia chiama l'"universale ghuluww di tutti i popoli del mondo"; sennonché ghuluww, a mio parere, non deve qui assumere quella sfumatura peggiorativa che ogni "esagerazione" si porta appresso, ma non è altro che l'esoterismo, la sapienza che appare necessariamente ai profani (anche e soprattutto a quelli colti) come eresia, follia, depravazione.

Questo ghuluww, a ben pensare, è forse l'unico tratto che storicamente sia stato davvero panislamico. Si tratta di ciò che Scarcia definisce il "panislamismo di tarīqa o di ma'rifa"3, perché quello di sharī'a non è mai esistito, neppure in epoca precoloniale. Questa osservazione risulta essenziale proprio per definire l'ambito di una disciplina come l'islamistica, troppo a lungo intesa come lo studio dell'universa civiltà araba – o, nel migliore dei casi, musulmana. L'islamistica deve invece limitarsi a cogliere quel che veramente vi è di peculiare, di irripetibile nelle istituzioni e nel pensiero dell'Islam, in altre parole ciò che è realmente panislamico, nel senso che è valido per tutto l'Islam e solo per l'Islam. La definizione è un po' estrema, ma coglie nel segno. Se la portiamo alle sue logiche conseguenze, vedremo che la storia dei paesi islamici non è islamistica, come non è islamistica lo studio del diritto musulmano; e si potrebbero aggiungere la filosofia, l'arte, la letteratura, ogniqualvolta che in queste non analizziamo qualche carattere che le renda inequivocamente islamiche.

Tenendo conto di questo tentativo di definizione (e a parte quelle due o tre cose non da poco che abbiamo prima indicato), la produzione di Gianroberto Scarcia è, come dicemmo, tutta islamistica, anche quando islamistica non appare. Talvolta può essere stato egli stesso a ingenerare l'equivoco, come quando ha affermato di essere "un iranista con spontanei ma ovvi interessi islamici", definizione autoriduttiva che sono sicuro egli è il primo a non condividere fino in fondo (ed in effetti nella stessa occasione aggiunge d'aver fatto l'iranista "quasi allo scopo principale d'indicare nell'Iran il più importante e valido centro vitale nell'elaborazione storica della cultura islamica"). Certamente la sua qualità di iranista è indubitabile, ma a mio parere è proprio questo che ha fatto di lui un islamista via eminentiae. Osservando l'Islam dalla provincia persiana, Scarcia ci ha dimostrato come questa periferia sia in realtà il centro. In questo vi è forse la differenza maggiore, almeno ai miei occhi, fra lui e Alessandro Bausani: quest'ultimo studiava le periferie perché lì riteneva che si potessero cogliere meglio le possibilità estreme e più vitali dell'Islam; Scarcia non sembra amare quest'impostazione, ma più semplicemente vede il centro altrove. Così, è il sedicente "mondo arabo" – che sarebbe meglio chiamare "arabizzato" – a rappresentare talvolta per lui la periferia, essendo esso stesso vittima di un'imposizione esogena che, paradossalmente, pesa molto meno sulla Persia (o sulla Turchia o sull'India).

La promozione della periferia a centro risponde ad un'esigenza precisa, che Scarcia ha particolarmente avvertito e che ha individuato (ancora una volta un po' autoriduttivamente) come il suo principale contributo agli studi islamici: "riscattare l'islamistica dalla cattività arabistica". Nessuno ovviamente pensa di ignorare o di deprezzare il ruolo e l'importanza dell'elemento arabo nell'Islam, che è lampante; ma questo non deve portare, come il più delle volte succede (soprattutto da noi e, in misura minore, in Francia), a marginalizzare gli elementi non arabi, a considerarli come semplici varianti, o appendici, o stravaganze. Questo Islam non arabo, che per Scarcia si definisce in positivo soprattutto come Islam persiano (nel senso più lato del termine), è invece altrettanto – e spesso ancor più – autorevole, autentico e rappresentativo di quello arabo. Il filologo di vecchia impostazione inorridirebbe, ad esempio, se per illustrare il concetto della morte nel pensiero islamico lasciassimo parlare i versi di Timur Zul'fikarov, "derviscio contemporaneo d'Asia Centrale", lasciando ad Avicenna (comunque persiano) solo la chiusa ed ignorando del tutto le più dotte disquisizioni di qualche dottore arabo4. Eppure, un derviscio d'Asia Centrale non è meno autorizzato a rappresentare l'Islam di quanto non lo sia un libanese o un giordano, ma in più ha il vantaggio di proporci una visione più universalmente e profondamente islamica delle cose. Del resto, la cruda realtà dei nostri giorni avrebbe dovuto dissipare ogni equivoco: chi è più "islamico", il tagico Mas'ũd, che nelle pause dei combattimenti amava recitare e interpretare per i suoi compagni raffinati versi persiani, o l'arabo-puritano Bin Laden, che infarcisce i suoi deliri di citazioni coraniche peggio e più a sproposito di quanto non faccia un pastore protestante con la Bibbia? Risposta evidente, si direbbe, eppure ciò non è stato ancora abbastanza per riscattare l'islamistica dall'arabistica.

Uno degli obbiettivi che Scarcia si era prefissato di raggiungere nel campo degli studi islamici, forse quello di cui ha sentito maggiormente la responsabilità, non è dunque stato ancora conseguito appieno, e non certo per suo demerito. Le poche pagine che precedono, pur nella loro stringata inadeguatezza, mi sembra dimostrino a sufficienza come il suo contributo all'islamistica sia stato chiarificatore e decisivo. Ma probabilmente, ancor più che uno scritto celebrativo, l'omaggio migliore da fargli è la promessa, per quanto poco conti, di persistere tenacemente anche noi negli scopi che gli stanno a cuore.


1 G. Scarcia, L'Islam non Arabo, in Ulisse, XXXI (1977), pp. 42-50.

2 G. Scarcia, L'eresia musulmana nella problematica storico-religiosa, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni, XXXIII, 1 (1962), pp. 63-97.

3 G. Scarcia, Islamistica e Persianologia in Italia, in Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Ca' Foscari, XI, 3 (1972), p.149.

4 G. Scarcia, La prospettiva islamica, in Il volto della Gorgone. La morte e i suoi significati, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 108-122.